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ESTETICA E ARTE. LA CANGIANZA DELL’ARTE FRA PIACERE E VIZIO


La storia dell’estetica e dell’arte ha da sempre intessuto una relazione privilegiata con le zone più intime e inesplorabili delle profondità umane, rinunciando a risolverne l’irriducibile problematicità e preferendo, piuttosto, limitarsi a descriverne i moti sottili e inestricabili. “Un mistero insondabile è l’uomo”: così ci dicono la filosofia e la religione, la psicologia e l’antropologia, e gli artisti hanno da sempre cercato di esplorare queste zone inaccessibili con la ricchezza inesauribile della loro immaginazione e della loro fantasia, in una narrazione che appare spesso per lo più discontinua e frammentata, sconnessa e accidentata.

All’interno di questo scenario è possibile individuare una dinamica che ci rivela tutto il suo carattere intrigante e solo apparentemente contradditorio e che si pone all’origine della stessa storia dell’estetica moderna, cioè quella fra piacere e vizio. Se infatti, da un lato, la capacità di giudicare la bellezza delle cose e degli oggetti d’arte risiede proprio nella estrema particolarità del giudizio estetico, che si presenta come “puro” proprio nella sua distinzione e assoluta autonomia rispetto ad ambiti extra-estetici quali, per esempio, quello della morale, dall’altro possiamo verificare come la creatività umana, quale quella che è venuta a esprimersi nei grandi capolavori dell’arte universale, sia profondamente intrisa e imbevuta di sensualità e di interesse per la vita. In un certo senso possiamo affermare come il “piacere disinteressato” di cui parla Kant, quello che nasce come effetto di una contemplazione autenticamente pura, cioè non interessata nei confronti dell’esistenza dell’oggetto o a quello che esso può significare per la nostra vita, conviva nell’arte con il vizio, come ciò che, appunto perché definito in quanto contrario della virtù, ha comunque a che fare con la moralità, cioè proprio con quell’ambito da cui l’estetica tende a distinguersi in modo netto. Nella cultura classica il vizio è infatti rappresentato dagli estremi opposti della moralità umana di cui la virtù è la medietà, il giusto mezzo: per esempio l’astinenza e l’intemperanza nei confronti della moderazione, o la codardia e la temerarietà nei confronti del coraggio.

 

L’arte vive così all’interno di una forma di cangianza che avvicina alla vita pur volendosene distanziare e in questo realizza quasi un incantesimo, di beatitudine e di passionalità al contempo. L’arte è cangiante proprio nella misura in cui segue il ritmo di questa dialettica e utilizza le immagini che presenta come l’esposizione di questa vibrazione che la sorregge e che si genera nel contatto fra la materialità dell’opera e la ricezione che chi la contempla ne deriva. Dalle origini alla contemporaneità, da Giotto ai maestri delle avanguardie, dall’astrattismo al Minimalismo, l’artista permette sempre al fruitore di fare un’esperienza mobile e fluida della realtà, nella quale le facoltà intellettuali interagiscono con la complessità della dimensione sentimentale e percettiva. L’immagine viene così a perdere la propria stabilità, facendosi rarefatta e inafferrabile, generatrice di continue e inesauribili allusioni e domande. Ma l’arte oggi, come afferma Lyotard, non rinuncia tuttavia a esprimere un imperativo, in quanto essa «non è un genere definito da un fine (il piacere del destinatario) e, ancor meno, un gioco le cui regole sarebbero da scoprire. L’arte assolve un compito ontologico, cioè “cronologico”. Lo assolve senza portarlo a termine. Si deve ricominciare senza fine a testimoniare dell’occorrenza, lasciando essere l’occorrenza».